Macchine infossate nel fango fino alla collottola, pneumatici di camion che girano a vuoto nella sabbia, piogge torrenziali e tronchi d’albero caduti a bloccare passaggi già precari: le foto che girano sui gruppi di overlander online hanno dell’apocalittico.
Non provare ad attraversare la strada di Lethem durante la stagione delle piogge è il dodicesimo comandamento di viaggiatori vicini e lontani che abbiano mai varcato i confini della Guyana via terra. In effetti, rispetto alle massicce quantità di camper e minivan che punteggiano la strada panamericana sul lato ovest del continente americano, ad addentrarci in questa zona a nord-est siamo molto poch3. Colpevole, senza dubbio, anche il difficile accesso: alla Guyana si accede infatti solo in due modi: 1. attraverso Lethem dal Brasile, costrett3 quindi a fare questi ameni 550 km di ipotetico incubo mortale, oppure 2. in traghetto dal Suriname, a cui a sua volta si accede solo con un traghetto dalla Guyana francese, traghetto – questo – che occasionalmente viene sospeso anche per mesi a causa di oscure opere di manutenzione. Capirete quindi perché ci voglia una certa fortuna, molto tempo e un’approssimativa organizzazione di massima per navigare quest’angolo di mondo.
Ora, la mia umana avrà senz’altro le sue qualità, ma l’organizzazione e la lungimiranza non sono tra queste. Eccoci quindi a gennaio, teoricamente nel pieno della stagione delle piogge secondaria del calendario guyanese, a Georgetown a leggere di 101 modi per rimanere incagliate su 500 km di strada pressoché deserta nella foresta e a farci venire l’ansia.
Il barlume di speranza che comunque ci incoraggia a partire è il fatto che negli ultimi giorni trascorsi nella capitale non abbia mai piovuto e, anzi, le temperature siano state fastidiosamente torride. Nascondiamo in un angolo recondito della mente il piccolo dettaglio riguardante le modeste condizioni della nostra – per quanto guerriera – casa/macchina Trottola e alle 6 di mattina di un soleggiato sabato di gennaio ci mettiamo in marcia.

Lethem Road: sterrato e regole della strada
A parte la guida sul lato sinistro della strada, ancora leggermente destabilizzante, i primi 90 km fino a Linden vengono macinati in scioltezza, complice la strada asfaltata. Passato il ponte a pedaggio sul fiume Demerara e l’ultimo distributore di benzina, invece, si entra in territorio sterrato.
C’è sterrato e sterrato
Se c’è una cosa che ho imparato dopo aver percorso oltre 5000 chilometri non asfaltati in 20 paesi del continente americano è che “sterrato” è un termine estremamente generico e riduttivo.
Lo sterrato dell’immaginario collettivo è l’idilliaca ghiaia compatta in stile agriturismo del ricevimento del matrimonio della tua migliore amica. Lo sterrato nord e sud-americano, invece, può variare da dune di sabbie mobili a crateri lunari di roccia dura con pietre appuntite e legnetti (ancora meglio se con una pendenza del 50-55%), da un percorso a slalom tra laghi di fango uscito da un livello di Crash Bandicoot al letto di un fiume secco, da strettoie in terra rossa intervallate da ponti di assi di legno scricchiolante sospesi nel vuoto ad autostrade di ghiaia compatta in un motivo a fastidiosissime righine con massaggio ad alte vibrazioni incluso.
Sullo sterrato americano, poi, ogni regola della strada si annulla: puoi viaggiare sul lato della carreggiata che più preferisci, nel caso ci sia spazio per due veicoli ovviamente, e nel dubbio il camion ha sempre ragione. Il camion sfreccia su qualsiasi sterrato come un’auto da corsa, alzando un polverone che neanche una mandria di gnu alla rincorsa di Simba e crepandoti il parabrezza con l’arroganza del re della giungla.
Regole (?) della strada
Poi ci sono le corde e i posti di blocco della polizia locale.
Una corda tirata in mezzo alla strada significa pedaggio amatoriale: quindi ti fermi, fai due parole con la persona di guardia al pedaggio, paghi ciò che dovrebbe andare alla manutenzione della strada e riparti. Un posto di blocco in area rurale, anche se non c’è nessuno all’orizzonte, significa che devi fermarti comunque, entrare nella casa di legno più autorevole del circondario, rispondere a un paio di domande della polizia locale che vorrebbe essere in qualsiasi altro posto invece che lì al caldo in mezzo al nulla insieme al bestiame, firmare a mano il magico libro della polizia che attesta il tuo passaggio e, se tutto è in regola, hai il permesso di ripartire.
Linden – Kurukukari
Il nostro sterrato del primo giorno muta forma diverse volte, ma per lo meno è asciutto. Niente apocalisse post-diluvio universale, quindi: ce la possiamo cavare su quattro ruote, forse. Il campo minato di buche e polvere impedisce qualsivoglia accelerazione oltre la nobile soglia dei 35 km/h, ma non abbiamo fretta. Man mano che ci addentriamo nella foresta, gli alberi medi lasciano spazio ad alberi alti che lasciano spazio ad alberi altissimi, in uno slancio verticale nello spazio che farebbe venir voglia di guardare ovunque meno che la strada. Le conversazioni tra volatili e scimmie sono il contrappunto sonoro che i camionisti che ci sfrecciano accanto non si meritano.
Trenta chilometri a metà strada mettono alla prova i nervi dell’umana, in un tratto sabbioso in cui la scelta è tra affrontare le buche a una velocità maggiore di quella consona o rimanere inesorabilmente insabbiate. Ecco che Trottola si trasforma dunque in una mirabile macchina da rally per un’oretta, prima di lasciare finalmente spazio a un terreno più pianeggiante e meno letale. Tra giochi di luci e ombre, panini mangiati in corsa, pipì tra lussureggianti fratte e discese allarmate a controllare di non aver forato, a metà pomeriggio ci fermiamo a Kurukukari. C’è un ristorante, chiuso, ma la famiglia proprietaria – con fare incerto e timido ma molto gentile – ci permette di usare il giardino come campeggio.
L’umana è a letto alle 18, prima dell’invasione di strani insetti volanti che formano colonne nere intorno a qualsiasi flebile fonte di luce. La vita si adegua al ciclo del giorno e della notte, come prima che il mondo decidesse di estendere la produttività umana oltre ogni limite scandito della natura.


Kurukukari – Lethem
Il secondo giorno inizia con nuvoloni grigi forieri di pioggia e un guado in zattera di legno a motore che mi avrebbe stupito e lievemente terrorizzato se non lo avessimo già fatto in altre occasioni anche su zattere a carrucola. Fun fact: il biglietto di questa zattera va comprato in anticipo nella capitale Georgetown per ragioni un po’ nebulose e per una volta sono grata all’ansia dell’umana che ci ha permesso di non arrivare completamente alla sprovvista rischiando di dover tornare indietro di 400 km per il biglietto di una traversata di 15 minuti.

Qui, in mezzo alla foresta, stiamo attraversando il fiume Essequibo, oggetto di contesa e tensioni politiche tra Venezuela e Guyana. Trovo sempre affascinante come l’umanità – camuffando palesi interessi economici – carichi di immensi significati politici, storici e sociali delle aree naturali che invece vorrebbero andare avanti per la propria strada senza saperne niente di nessuno. Vedendo le acque così placide dell’Essequibo qui, leggermente increspate dalla zattera e punteggiate di isolotti sabbiosi, sembra impossibile che siano le stesse per cui un governo sta minacciando di armarsi per occupare il territorio. L’umanità è davvero una razza pericolosa.

Dopo il guado, ci godiamo ancora la maestosità silenziosa e tinta di verde scuro e opaco della foresta. Ben presto però il paesaggio si trasforma in una distesa aperta e arida a perdita d’occhio: il caldo trasuda dal suolo secco, i sassolini scricchiolano sotto le ruote come granelli di pepe… siamo in una savana. Inizia a vedersi qualche villaggio di piccoli edifici in lontananza, l’ambiente non lascia più nulla all’immaginazione, tutto è dispiegato sotto il cielo come una mappa srotolata. Dopo ore che sembrano giorni su quest’ampia via di roccia e pietre, nell’afoso pomeriggio domenicale raggiungiamo il baluardo di confine di Lethem.


Lethem è arida, polverosa e deserta, come una città fantasma di un film western ai confini del mondo. I negozi con le loro insegne sbiadite in cinese e portoghese sono sprangati e il vento fischia con una ferocia volenterosa che però muove solo aria calda. Potremmo fermarci ad accampare letteralmente in qualsiasi angolo della città, ma aspettare il calar del sole in un forno senza un filo d’ombra non sembra la scelta più saggia. Per una notte ci piegheremo ai comfort di un hotel, l’unico che nell’immobilità generale sembra mostrare qualche segnale di vita. Così finalmente l’umana si fa una doccia e io posso tornare a respirare aria pulita.
Che dire, abbiamo attraversato indenni anche questo angolino selvaggio di mondo, che tanti ha bloccato e altrettanti ha fatto desistire. Ma noi non siamo “tutti”, siamo una tartaruga e un’umana con molta fortuna e una discreta dose di incoscienza, una tartaruga e un’umana che stasera si rotoleranno su un letto pulito in una camera con l’aria condizionata in una città fantasma dove ulula solo il vento.

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Sempre buona avventura,
Matilda