Trekking di Ciudad Perdida: diario di viaggio

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Arrivo a La Aguacatera accartocciata sul sedile posteriore di una jeep sconquassata ma che sa il fatto suo. Cercare di rimanere in posizione senza scivolare addosso agli altri richiede un notevole esercizio di addominali, che di norma tengo nascosti con cura sotto la pancia. In un punto non ben definito lungo la strada che da Santa Marta costeggia il Parque Tayrona e prosegue verso Palomino e La Guajira, sulla destra, c’è La Aguacatera, uno spiazzo di terra e fango come tanti altri che ospita un negozietto a metà tra un mini-alimentari e un tabacchi e un piccolo ufficio dove ci si registra per iniziare il trekking di Ciudad Perdida.

Ciudad Perdida, o Teyuna in lingua indigena, è comunemente conosciuto come il Machu Picchu della Colombia. Benché nel complesso forse l’effetto suscitato sia meno dirompente del compagno peruviano, Ciudad Perdida conserva un’autenticità, una spiritualità e una magia che per me il Machu Picchu ha perso a causa del turismo umano di massa. Annidato nella Sierra Nevada di Santa Marta, Teyuna è un luogo vivo, dove continuano ad abitare le comunità indigene che discendono dal popolo tairona, organizzate in circa 350 villaggi.

Ciò che fa desistere molti gruppi di turisti da bandierina e aiuta a preservare il misticismo del luogo è il trekking necessario per arrivarci. Niente minivan o comodi treni che portano all’ingresso: per arrivare al sito sacro di Teyuna bisogna scarpinare per due giorni nella selva tropicale e andina, e poi altri due giorni per tornare indietro.
Quattro giorni di disconnessione totale dai rumori molesti e il caos psicopatico della città? Dove devo firmare?

Il trekking non si può fare senza guida, quindi qualsiasi tour operator tu scelga ti verrà a prendere da qualche parte a Santa Marta. Da lì si arriva in jeep a La Aguacatera e, dopo la registrazione ufficiale in cui ciascun umano vince un braccialetto verde di carta, si prosegue in jeep per circa 40 minuti lungo uno sterrato in salita che metterà alla prova ogni articolazione del tuo corpo fino al villaggio chiamato El Mamey o Machete Pelao.

mappa trekking ciudad perdida

Giorno 1: salite, premi di montagna, miele e cacao

El Mamey è l’ultimo baluardo dei mezzi a motore, da lì in poi è tutto sterrato e le mule da carica sono l’unico mezzo di trasporto. Il villaggio deve il suo nome alla presenza in epoche anteriori di un grande albero di mamey, un bizzarro frutto tondo e giallo che sembra un melone ma sa di ananas. Il nome folkloristico di Machete Pelao, invece, deriva dal fatto che tra gli anni ’70 e gli anni ’90 quest’area era in gran parte dedicata alla coltivazione di marijuana, insieme alla quale arrivò il vile denaro accompagnato da madama violenza, amabilmente dispensata senza troppe remore a colpi di machete e altri simpatici strumenti.

Il nostro guida, Chelo, è un umano gioviale dalla risata potente e la pelle bruciata dal sole. Porta con sé un machete legato in vita e al collo ha una massiccia pietra verde-azzurra, ottenuta in circostanze misteriose e retaggio delle attività non-così-antiche dei guaqueros, cacciatori di tesori che setacciavano la Sierra alla ricerca di tombe antiche da cui estrarre oggetti preziosi. A completare il dream team che si prenderà cura del gruppo ci sono Jair, secondo guida e accompagnatore di eventuali feriti (che, spoiler alert, ci saranno) e Jesús, il nostro cuoco personale. Con una punta d’orgoglio posso constatare che il gruppo è in maggioranza femminile. Dopo un lauto pranzo e una breve spiegazione introduttiva, siamo prontə a partire.

ciudad perdida teyuna trekking giorno 1

La prima parte del sentiero non è riparata dalla vegetazione, e la salita a zampe nude sulla ghiaia arroventata dal sole non è molto simpatica. Il sudore mi incolla le palpebre che non ho. L’umidità si taglia col coltello, ma la selva tropicale ha dei verdi che sanno di arcobaleno. Si odono solo insetti e uccelli in un coro di natura. Facciamo pause brevi ma frequenti, ogni mezz’ora circa, e verso metà percorso in una piccola baracca deserta ci aspetta il premio di montagna: anguria, ananas e arance fresche. Chelo ci mostra una pianta dalla resina miracolosa, usata come unguento per sanare ogni tipo di ferita. Una signora lungo il cammino vende cacao e miele prodotti in loco. Mi sporco il musetto con entrambe le cose e se l’umana non mi avesse allontanata mi sarei finita entrambi i vasetti. Dopo circa quattro ore e mezza di camminata tra salite, discese, ponti sul fiume, liane e vegetazione lussureggiante, raggiungiamo il nostro accampamento per la notte.

L’accampamento è costituito da uno spazio in terra battuta senza pareti e riparato da un tetto, dove sono sistemate due lunghe file di letti a castello, ciascuno con le sue lenzuola, cuscino, copertina e zanzariera. Ci sono bagni, docce, lunghe tavolate dove ci si siede a conversare aspettando pazientemente la cena, e qualche panca più isolata dove sedersi a contemplare il paesaggio notturno. L’elettricità viene spenta al massimo alle 21, niente Wi-Fi né segnale del cellulare: le persone parlano tra loro, si ascoltano, condividono storie e una cioccolata calda prima di dormire. Rimango spesso strabiliata dalla vostra giovialità quando non potete utilizzare apparecchiature elettroniche, come se un pezzettino di anima normalmente intrappolata dentro Facebook o Instagram risorgesse dalle sue ceneri.

Mentre la nebbia scende sui verdi cupi come un velo avvolgente, il mio respiro è libero dal panico. I grilli, le cicale e la voce del fiume mi cullano in un sonno profondo.

Giorno 2: bagni nel fiume, cultura indigena e consigli di vita

Alle 6.30 siamo prontə a metterci in marcia per approfittare della frescura mattutina.
Mi sento come un hobbit nel periglioso viaggio fuori dalla Contea: devo correre per tenere il passo e non vedo l’ora che arrivi la seconda colazione. La pioggia notturna ha creato uno strato di fango che rende un po’ difficoltoso camminare, ma un tappeto di nuvole bianche basse ci accompagna nelle prime ore sul sentiero, e sai quanto è emozionante per una tartaruga vedere le nuvole senza dover alzare la testa?

nuvole trekking ciudad perdida

Il programma di oggi prevede una camminata doppia, mattina e pomeriggio, con delle salite alquanto difficoltose e molteplici attraversamenti del fiume Buritaca, ma il tempo è buono e il morale alto. All’ora di pranzo ci fermiamo nell’accampamento della comunità indigena di Mutanzhi, dove ci rifocilliamo e poi andiamo a tuffarci nel fiume per rinfrescarci. L’acqua fresca è una benedizione della Pachamama e la corrente piacevolmente forte permette di nuotare rimanendo fermə sul posto, come una specie di cyclette acquatica naturale.

La parte più interessante della giornata, però, è l’incontro con le comunità indigene del territorio. Nella Sierra Nevada vivono ancora quattro popolazioni indigene: Wiwa, Kogui, Arhuaco e Kankuamo, discendenti del popolo ancestrale dei Tayrona.

Comunità wiwa

Ad accoglierci nella riserva Wiwa c’è Somaku, che per comodità si fa chiamare Manuel. Vestito di bianco come vuole la sua cultura, ci accoglie in una piccola capanna con l’espressione concentrata e un po’ severa di chi sta facendo entrare nel proprio spazio un gruppo di sconosciuti. Come biasimarlo? Mi siedo il più vicino possibile per ascoltare con attenzione tutto ciò che ha da raccontarci. 

Per prima cosa, ci mostra come vengono trattate le fibre e le radici degli alberi per ricavarne i colori necessari per tingere tessuti e fabbricare borse tipiche dell’arte wiwa. Ci vogliono almeno quindici giorni per completarne un esemplare e qualunque persona di qualsiasi dimensione da queste parti ne ha sempre una con sé. Invece che portarla a tracolla, se la sistemano sopra la testa perché il peso venga meglio distribuito.
Mentre parla, osservo con curiosità la specie di pera oblunga che ha in mano, cercando di capire cosa sia e quale sia la sua funzione. Maracas? Corno dalla punta arrotondata? 

ciudad perdida comunità indigena wiwa

Dal punto di vista meramente pratico, quest’oggetto, chiamato poporo, è… un passaporto, che garantisce ai membri di tutte le comunità il libero passaggio nei vari territori della Sierra, in realtà però è molto di più. Offerto ai diciottenni dallo sciamano della comunità, il mamo, dopo uno strenuo rito di iniziazione che molte volte include il non dormire per 4 notti, rappresenta l’entrata nella vita adulta, una connessione profonda con la natura, un’estensione del corpo, una conversazione onesta individuale e comunitaria, è la rappresentazione della terra stessa.

Il poporo è un calabazo secco, un frutto endemico a scorza dura della famiglia delle cucurbitacee, che viene riempito di polvere di conchiglie delle magnifiche spiagge del parco Tayrona, e di ayu, ossia foglie di coca. Le foglie, inserite all’interno della guancia a mo’ di criceto, aiutano gli uomini delle comunità a sentire meno fame, meno sonno e danno loro energia per espletare tutte le loro attività. La miscela di foglie di coca umide di saliva e polvere di conchiglie viene poi applicata tramite un bastoncino sulla parte esteriore del poporo, dandole il colore giallo che simboleggia il sole.

Mi affascina la vita di quest’umanità, molto più connessa e vicina alla madre terra di quanto non siano le creature che hanno scordato la propria storia. Nelle loro parole percepisco un profondo orgoglio per le proprie radici e una forte consapevolezza del proprio ruolo nell’ecosistema in cui sono inseriti. “L’armonia con la natura” spesso millantata nella cultura occidentale qui assume il suo significato più autentico, nonostante la vita delle comunità debba essere piena di contraddizioni, in costante equilibrio tra le tradizioni ancestrali e una modernità soverchiante che minaccia di fagocitare tutto e con cui è impossibile non fare i conti. La loro ricchezza culturale mi fa venir voglia di nascondermi qui per un po’ e tornare alle mie origini, alle origini della vita stessa.

Comunità kogui

ciudad perdida comunità kogui

Lungo il cammino passiamo poi il pueblito Kogui, un centro dove si riunisce la comunità omonima per occasioni particolari. Le loro capanne presentano una caratteristica forma a cono con due pali che spuntano dal tetto, simboli delle due cime più alte della Sierra Nevada, il monte Colón e il monte Bolívar. Incrociamo bambine che lavano i panni nel fiume, bambini che conducono asini più alti di loro, giovani che caricano sacchi, mamme con neonati sulle spalle. I più piccoli ci corrono intorno alla ricerca di dolci, ma quando si accorgono della mia presenza carina e coccolosa tutto il resto passa in secondo piano. Per un interminabile momento temo per la mia vita.

trekking ciudad perdida santa marta pueblito kogui

Dopo una lunga e strenua giornata di cammino, giungiamo al terzo e ultimo accampamento: Paraíso Teyuna. Altro bagno refrigerante nel fiume al calar della sera e poi allegre ciacole accompagnate da popcorn e cioccolata calda. Piaccio alle creature umane del gruppo, che mi chiedono della mia vita e delle mie origini. In generale non le disdegno, sono stata piuttosto fortunata a condividere quest’esperienza con gente curiosa, spigliata e divertente. La mia preferita, nonché nuova maestra di vita, è una signora chiamata Esmeralda, avvocata camminante che ha una battuta per tuttə e una risata contagiosa (ed è non-così-segretamente innamorata del cuoco). Il consiglio più prezioso dell’intera avventura l’ho ricevuto proprio da lei, che mi ha detto: non aver paura di occupare spazio o di scomodare la gente. Fai sentire la tua voce e prenditi tutto lo spazio che meriti.
Sono piccola, ma mi prenderò tutto il mio spazio, mi ripeto scivolando in un sonno profondo cullata dal vento.

Giorno 3: Teyuna

Stamattina, in occasione della pioggerellina che spolvera il paesaggio, la mia umana indossa un pezzo degno della prossima collezione autunno-inverno della Milano Fashion Week: un elegantissimo sacco nero della spazzatura. Chiunque abbia progettato il sito di Teyuna non voleva che gli aspiranti visitatori arrivassero asciutti e pettinati, questo è certo.

Il primo ostacolo è il guado del fiume, in un punto in cui la corrente è discretamente forte e il livello dell’acqua arriva alla vita delle persone di media statura e sommerge impietosamente ogni tartaruga. Per facilitare le operazioni di guado, viene consigliato di togliere scarpe e pantaloni e di tenersi forte alla corda che collega una sponda all’altra. L’intero processo si rivela piuttosto divertente: gli umani sono proprio delle creature goffe quando il terreno sotto di loro è poco stabile.

Una scrollatina di chiappe e la nuova sfida sono 1200 scalini sconnessi e all’occorrenza scivolosi che mettono alla prova fiato e capacità di coordinazione. Salirli può sembrare faticoso, ma ti assicuro che è a scenderli che si rischia davvero la vita (e l’incolumità delle ginocchia). La scalata verso il parco sacro è una specie di pellegrinaggio velato di misticismo, con l’entusiasmo per essere finalmente vicinə alla meta inversamente proporzionale all’abilità di respirare. In cima, un guardiaparchi timbra l’entrata di ciascunə su uno speciale passaporto blu consegnatoci per l’occasione, come una specie di medaglia al valore, alla paonazzitudine e alla maleodoranza

trekking ciudad perdida santa marta scalinata

matilda scalinata teyuna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nebbia bassa dopo la pioggia notturna, il canto degli uccelli nel silenzio e lo sguardo degli alberi dall’alto ci accolgono in un mondo che ti entra direttamente nelle viscere, senza passare per la ragione. Le terrazze circolari caratteristiche dell’architettura tayrona, risalenti al 700 d.C. e perfettamente conservate, ci aspettano vestite di sole e circondate da palme di tagua, come delle padrone di casa che si fanno belle e mettono in ordine il salone per ricevere gli ospiti. Ci muoviamo con il naso all’insù sui sentieri di pietra che collegano le une con le altre, ascoltando il racconto della Sierra sugli equilibri del pianeta, sull’importanza delle popolazioni indigene per la protezione e la cura della Pachamama e sulla nostra co-responsabilità come abitanti di questo mondo.

ciudad perdida teyunatrekking ciudad perdida terzo giorno

 

 

La visita al mamo

Prima di scendere, senza fretta, facciamo visita alla casa del mamo dove ci accoglie sua figlia, 21 anni e quattro figli al seguito di cui l’ultimo neonato. Nel poco tempo che passiamo con lei, ci spiega come, per la sua gente, Teyuna rappresentava il cuore del mondo, un luogo di protezione per persone, animali, alberi, acqua. Il loro timore è che uomini e animali arrivino a combattere per l’acqua del fiume, a causa dei cambiamenti climatici. Quanto hanno ragione…
Compriamo da lei dei braccialettipregati”  – ossia, che la sua comunità ha fatto e benedetto con preghiere – in segno di ringraziamento e come ricordo di questi fugaci momenti insieme.

Giorni 3-4: ritorno e lezioni imparate

ciudad perdida trekking fiume

Avvolta e travolta dalla potenza della natura, cammino in una bolla di energia, come se le mie zampe andassero da sole. Il giorno e mezzo di camminata di ritorno non è in alcun modo più facile dell’andata (soprattutto considerando che la pioggia ha convertito ampi tratti di sentiero in sabbie mobili che neanche Indiana Jones) ma neppure meno glorioso. Ogni passo ha un pizzico di consapevolezza in più, di gratitudine in più, è una promessa tacita a fare un po’ di più per la salvaguardia della natura e delle culture ancestrali.

Varcare la soglia del ristorante del Mamey (come prima classificata a pari merito, tra l’altro) da cui siamo partitə quattro giorni prima mi ha fatto sentire completa. Dopo troppi mesi in città, questa mini-avventura mi ha fatto riscoprire l’importanza del saper parlare con e ascoltare la terra, e capire che la Sierra esige ma allo stesso tempo regala. Non vedo l’ora di tornare.

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