Trekking monte Roraima: diario di viaggio parte 2

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Questa è la seconda parte del diario di viaggio relativo al trekking del monte Roraima. La prima parte è qui, mentre questo post informativo contiene tutto ciò che riguarda la preparazione, i costi, la scelta del tour e compagnia bella.

Giorno 3: Campamento Base – Hotel Arenal
5 km – 9000 ore totali percepite

Ha smesso di piovere, ma l’aria è carica di un’umidità pesante che mi schiaccia il corpo. Gli umani appendono i vestiti bagnati a un albero, in un ultimo disperato tentativo di asciugare qualcosa. Il fango scricchiola la sua canzone acquosa sotto le mie zampe mentre gironzolo per il campo base. Alexander ci parlava di dumplings per colazione, ma invece ci ha preparato pane andino, che sembra pane arabo ed è molto buono perché grazie a tutti i santi numi non è dolce. Pane andino, uova, marmellata e formaggio per una giornata impegnativa.  Bevo il mio tè osservando la montagna e sono abbastanza inquieta. Non mi piace scalare e la parete sembra piuttosto verticale.

roraima giorno 3 inizio camminata

La salita

Iniziamo guadando il fiume tra le pietre scivolose e con una prima salita corta ma intensa di terra gialla e ocra. Alexander dice che la parte più difficile è finita e mi sento estatica e motivata, presto saremo alla parete con la cima in vista. Avrei dovuto sapere che le guide mentono e ciò che sarebbe arrivato dopo sarebbe stato tutto meno che facile.

Il sentiero continua a inerpicarsi tra pietre, rocce e radici, non siamo nemmeno a un terzo del cammino e l’umana – con l’abilità straordinaria che la contraddistingue – fa cadere il telefono rompendo lo schermo. Tutto per un lichene verde chiaro che sembra un broccolo. Sono stanca e demoralizzata, i passi si fanno sempre più grandi, i gradini della roccia sempre più alti. Gli esemplari maschi del  gruppo salgono come stambecchi con i loro quadricipiti allenati e io boccheggio con l’umana, sempre più arrabbiata a ogni passo. Il tratto di bosco umido che si vedeva costeggiare la parete dal basso mi dà due minuti di tregua, fino al punto dove arriviamo a toccare l’immensa parete di roccia.

La parete

Roraima, madre di tutte le acque, è aguzza, spigolosa, umida e schiacciante nella sua potenza. Appoggio la fronte alla pietra fredda respirando profondamente. È difficile, ma sono fortunata di potermi permettere di essere qui, la mia presenza in questo posto e in questo momento è un privilegio, ascoltare la voce della montagna è un privilegio, le zampe stanche che mi hanno portato fin qui sono un privilegio. Chiedo il permesso e rendo grazie, la religione della natura è l’unica che ha senso, priva di dogmi e ingiustizie senza senso. La natura, la montagna, era qui prima di noi e lo sarà anche dopo, mentre ci dirigiamo a tutta velocità verso la distruzione di ogni specie. Non sai niente, clan mucca.

Prometto alla parete che dedicherò le mie forze con più determinazione alla protezione dell’unico pianeta che abbiamo. Gli prometto che lo proteggerò con tutto ciò che ho a disposizione, con parole e azioni, con la teoria e la pratica, con le emozioni e i sentimenti, le unghie e i denti, che farò la mia parte con resilienza ed empatia. Che crederò di più in ciò che posso fare e mi impegnerò di più e meglio. Il monte rimane silenzioso, ma sento la sua energia.

Il momento spirituale lascia presto il posto a nuova fatica e malumore, sono perennemente indietro e alla fine di una sconnessa scalinata di roccia ce n’è sempre un’altra. Lancia il bastone, aggrappati con le zampe, tirati su, scuoti la terra dal guscio, cerca di respirare, ripeti.

Il Paso de las Lagrimas è una pioggerella con rivoli d’acqua che scendono a strapiombo della montagna. Dobbiamo attraversare in orizzontale un fianco esposto che piange sulle pietre rendendole scivolose e potenzialmente letali per una creatura piccola e tondeggiante come me. Mi copro la testa invano, il vento mi sferza veemente e sadico il muso. Vorrei immortalare il momento ma davanti non aspettano e non posso permettermi di cadere nel baratro. Mi rassegno e attraverso indenne il passo piangente.

Da qui manca ancora 1 km che, nel linguaggio della scalata di massi scivolosi, significa almeno un’altra ora, forse anche di più. Smetto di preoccuparmi di chi ho davanti e cerco di pensare un passo alla volta, lento e ben calibrato. Non ricordo nulla del paesaggio a parte tante rocce e il bruciore dei muscoli durante la salita. Non ho dettagli di questa parte, solo sensazioni. Ogni tanto mi aspettano, ma faccio in tempo ad arrivare che la marcia riprende. Quando finalmente giriamo l’angolo e si vede la cima mi permetto un sorriso vero, non di circostanza. Dopo un’eternità e mezza e milioni di scale abbiamo raggiunto la cima del tepuy.

La cima

Non so cosa mi aspettassi, forse una sorta di spianata liscia e regolare dove correre e fare capriole. La superficie del tepuy in realtà è sconnessa, bucherellata, asimmetrica, insidiosa, con massi, crepe, lagune e piante. Da dove ci troviamo dobbiamo ancora salire per raggiungere l’hotel assegnatoci, ma la soddisfazione di aver fatto la parte ardua e la prospettiva di un pranzo caldo sono ottime motivazioni da sfruttare. Saltelliamo da una pietra all’altra per una decina di minuti buoni fino all’imboccatura di un sentiero stretto in salita sulla sinistra demarcato da una buccia di mandarino. Ancora non lo so, ma il mandarino diventerà il mio segnale di conforto, la rotta verso casa.

Entriamo ben presto in uno spiazzo riparato dal vento che fa da anticamera a una caverna dal soffitto alto e ampio spazio per tende e cibo. Ciò che qua si definisce hotel è questo: una grotta riparata sul lato della montagna dove è possibile accampare. Ognuna ha il proprio nome  e a ogni gruppo ne viene assegnata una dai guardaparques il giorno prima della partenza. Non è difficile capire perché il nostro si chiama Arenal: il tappeto di sabbia che arreda il pavimento non lascia adito a dubbi.

roraima fiore inirida

Esploro lo spazio con la curiosità di una tartaruga abituata all’agio, l’entusiasmo di una giovane marmotta in un luogo potenzialmente ostile con ogni strumento per un soggiorno sicuro, l’arroganza di Simba che porta Nala al cimitero degli elefanti. Ogni dolore dimenticato, sono una cucciola entusiasta che gioca a fare l’avventuriera in un posto senza pericoli. Mi fermo ad ammirare il paesaggio nel nostro ampio salone aperto, mi arrampico nell’ala posteriore per controllare il bagno, mi siedo un attimo in cucina mentre la zona notte prende forma sotto le mani esperte di Alexander. C’è vento, fa fresco, ma non c’è traccia di puri puri. Un coatì nero con la coda striata di ocra trotterella fuori da un basso antro scuro e scende per il sentiero, senza fermarsi a salutare ma neanche con particolare fretta.

Una zuppa col pane per pranzo mi prepara per la pennichella pomeridiana. Verso le 17 Alexander ci porta al mirador, anche se visto il sole speravo andassimo al Maverick, il punto più alto del tepuy. Non importa, facciamo foto, vediamo tartarughe volanti, continuiamo il gioco delle nuvole ineludibili. All’orizzonte si vede il fumo dei fuochi dei cacciatori che si preparano per il ritorno trionfale alla comunità con la selvaggina in occasione del Natale. Prima usavano lance e frecce, adesso fucili. Le luci dei villaggi lontani ci orientano: si vede Paraitepuy sulla destra e in fondo persino Santa Elena. Ci sediamo su una panchina di pietra che pare dei Flintstones, ma alle 20 siamo tutti distrutti. Dormo.

monte roraima vista dal tepuy

Giorno 4: Arenal – Punto Triple – Cristales – Fossa – Jacuzzi – Ventana – Arenal
20+ km – 7h circa

Finalmente la giornata che aspettavo con più ansia. Finalmente esploreremo il tepuy. Quando scali una montagna, arrivi al punto più alto, ammiri un po’ il paesaggio e scendi. Qui è diverso, c’è un mondo di caverne, crepe, lagune, formazioni rocciose, crinali da scoprire. C’è gente che passa anche un mese qua in cima, catalogando piante, scoprendo sentieri e storie nuove, vecchie di centinaia di anni. Io mi perdo persino scendendo a lavare i piatti, il mandarino la mia ancora e faro nella notte, ma Alexander naviga l’intera superficie del tepuy come se fosse il giardino di casa sua.

Usciamo dopo colazione, leggere e libere senza zaini, pronte a portare in giro solo il nostro peso e chili immaginari di aspettativa. Alexander ci guida su e giù, spiegando il nome di tal pianta o la storia di tal formazione rocciosa. Tra una bromelia e un fiore giallo di inirida, assorbo i colori, do forma ad animali di roccia, uso entrambe le zampe per scavalcare pietre o salire su elefanti per le foto. C’è un esercito di tartarughe di pietra disseminato per tutto il tepuy, guardiane sagge, silenziose e immutabili ai secoli di storia. Chissà se hanno visto anche i “primi” esploratori britannici che hanno aperto il sentiero o le corse di centinaia di cacciatori pemon prima che il tepuy fosse “scoperto”.

La triple frontera

Il ritmo è serrato e ben presto mi trovo a trotterellare per stare al passo. Il clima qui non è mai stabile per più di 5 minuti alla volta, ma il sole ci regala qualche momento in cui tutti i colori diventano più brillanti come un filtro HDR. Facciamo qualche foto alla roccia dell’elefante e in punti panoramici di cui ho dimenticato il nome e in meno di 4 ore siamo alla triplice frontiera, il punto che unisce Venezuela, Brasile e Guyana. Le percentuali sono da ricontrollare, ma Alexander dice che l’85% del tepuy è venezuelano, il 15% guyanese e il 5% brasiliano. La punta più alta, a 2839m, è in Guyana ma le versioni ufficiali la pongono in Venezuela a 2810m, il famoso Maverick.

Sulla scultura che divide i tre paesi manca una scritta degna per la parte guyanese, ma ora i due paesi si stanno contendendo la zona dell’Essequibo e questo confine non è chiarissimo. Non so molto dei grovigli politici dell’Essequibo, ma considerando che in Venezuela c’è un dittatore pazzo, sono più incline a pensare che la rivendicazione da parte sua non sia del tutto legittima.

trekking roraima triple frontera

Cristales

Dopo la pausa scendiamo in quello che sarà il luogo più mistico della giornata: Cristales. Non mi pareva valesse la deviazione finché non ho notato il terreno bianco disseminato di quarzo del Roraima. Perfettamente a forma di prisma, i cristalli sono di un bianco opaco pulito e di almeno 5 cm di lunghezza ciascuno. È un pavimento scricchiolante di perfezione naturale. I cristalli sono a terra, nell’acqua, sulle rocce: occupano ogni spazio e lo riempiono di energia. Ci sediamo a occhi chiusi ad ascoltare l’acqua che scorre di colpo assordante. La gente a quanto pare cerca sempre di portarsele a casa nascoste, ma le pietre appartengono al Roraima e qui devono rimanere. Lascio cadere quelle che avevo tra le zampe e riprendiamo la marcia.

La fossa

La fossa è una specie di cenote molto grande, un cratere lunare di acqua giallognola nel mezzo del tepuy. L’altezza dall’orlo della roccia all’acqua sembra saltabile, ma Alexander dice che non si può. Il freddo e l’accesso accidentato all’acqua ci fanno desistere e proseguiamo. Siamo già sulla via del ritorno e dopo uno sprint positivo dietro alla guida, inizio a trascinare le zampe. Il vento si alza e di tanto in tanto i bacini del Roraima scendono sui nostri cappucci a rinfrescarci il muso in forma di pioggerellina.

Jacuzzi e Ventana

Decidiamo di fare una deviazione alle jacuzzi quando le mie zampe sono determinate a scioperare. Oltrepassata la striscia di sabbia del campo da golf, arriviamo a vasche di perfetta forma e profondità, illuminate dal sole, e dopo pochi secondi ho già le zampe dentro. L’acqua è fredda ma ristoratrice, perdo la sensibilità delle zampe e ne sono felice. L’incostanza del sole mi impedisce di immergermi completamente, l’ipotermia è sempre in agguato in questo corpo terribilmente sensibile a qualsiasi sbalzo di temperatura. Ma la fermata è sufficiente a farmi riprendere vita e quando ci rimettiamo in marcia verso la Ventana, ho davvero la speranza che si veda qualcosa e la fabbrica delle nuvole non sia troppo zelante.

Purtroppo lo è. Non si vede nulla del paesaggio a perdita d’occhio delle foto. Scendo sulla punta del belvedere e una folata di vento porta una nebbia di un bianco accecante ad avvolgermi in un abbraccio. Entrare in una nuvola sull’orlo del precipizio è disorientante, un po’ come quando si nuota nelle profondità dell’oceano senza il minimo punto di riferimento. Rimango immobile dentro il bianco, un batuffolo di gioia e adrenalina nell’aria pungente. Sono almeno a 2-3 passi dal bordo, ma Alexander sembra notare il mio sprezzo del pericolo e mi tira indietro lievemente preoccupato.

roraima ventana

Ritorno in hotel

La strada del ritorno non è lunga ma sembra eterna, ho fame e vedo in un angolo della mia mente la buccia del mandarino come l’entità suprema che ci salverà. Mettiamo zampa in hotel quasi alle 17, con il sole che inizia lentamente a calare. Mi scofano due panini al formaggio in attesa della cena: anche oggi mi laverò domani. Mangiamo e ci rifugiamo in tenda alle 19 scarse.

Col favore dell’oscurità i topolini endemici del Roraima escono a cercare cibo tra le nostre cose. Arruffano buste di plastica e fanno cadere pezzi, ma tutto è ben nascosto. Dopo averli cacciati 3 volte con la luce delle torce e dopo una sgradevole emergenza bagno dell’umana, ci abbandoniamo al sonno. Domani sarà un (altro) giorno impegnativo.

Giorno 5: Hotel Arenal – C. Base – C. Kukenan – Rio Tek
15 km – 7-8 h

Ci svegliamo nel grigiore assordante di una notte di pioggia. A tratti il grigio si fa bianco, come le nuvole onnipresenti, e le goccioline di pioggia si intrufolano nella tenda attraverso la zanzariera. Mi faccio portare la colazione in tenda e inizio a prepararmi con l’estrema calma di chi spera che esca il sole. Tutti i telefoni sono morti e non sappiamo che ore sono. Ormai è chiaro che non smetterà di piovere e bardate salutiamo la nostra amata cueva/hotel e scendiamo il sentiero del mandarino per tornare da dove siamo venute due giorni fa.

roraima cima pioggia

Ben presto ci rendiamo conto che la pioggia non crea solo un disagio fisico ai nostri corpi infreddoliti ma aggiunge un notevole ostacolo tecnico sul sentiero: tutto ciò che prima si poteva bypassare saltando da una pietra all’altra è ormai inondato tipo fiume in piena. Dopo 10 minuti le zampe sono completamente zuppe e così rimarranno per le 8 ore successive.

Normalmente preferisco la discesa, ma qui ogni pietra è un potenziale pericolo di scivolamento. Scendo la prima parete con attenzione cercando di rimanere attaccata al gruppo, ma il mio scarso equilibrio – e il fatto di essere una tartaruga – mi impone un passo più lento. Al Paso de las Lagrimas sono già zuppa in ogni strato, con il rivoletto sulla nuca che scende vertebra per vertebra dentro il guscio in un brivido ghiacciato. Le lacrime oggi sono un pianto a dirotto, la disperazione della montagna in tutta la sua furia. Pensavo di essere già bagnata, ma mi sbagliavo: passare sotto le lacrime aggiunge un nuovo violento strato di acqua ghiacciata. La discesa è meno esposta della salita, ma comunque stiamo attraversando fiumi sulle pendici di una montagna a 2300m. Il mio morale inizia a fluttuare nonostante il respiro non si spezzi.

La parte umida di vegetazione offre comunque un respiro nonostante il terreno sia fangoso e scivoloso. Passiamo che una quantità di ruscelli e pozzi d’acqua che all’andata non esistevano. Anche qui vorrei descrivere il paesaggio, le miracolose bellezze del Roraima, ma la verità è che il mio sguardo era fisso a terra, sul passo successivo, la pietra successiva, la radice successiva. Ricordo solo di aver salutato innumerevoli quantità di porteadores e gruppi in ascenso, sorridenti e trepidanti di un entusiasmo che al momento faccio fatica a condividere.

Facciamo pausa per un ultimo saluto alla parete, i ringraziamenti finali, un rinnovo di promesse, la preghiera per la fine della pioggia. Sono contenta di essere sulla via del ritorno eppure c’è una tale sensazione di vuoto nel lasciare indietro la montagna e allontanarsi. Io purtroppo sono solo una tartaruga, non posso permettermi l’immobilità della tua esistenza. Devo andare un po’ più veloce.

roraima nebbia

Quando arriviamo al serpente nero camuffato da radice, ho gli occhi vacui. Ogni volta che arriviamo a un terreno striato d’ocra, spero che sia l’ultima discesa ma c’è sempre un altro pezzo, un’altra ora, mezz’ora, 40 minuti. L’umana scivola 3 volte sul sedere, senza alcuna conseguenza, ma fa la drammatica per far sentire in colpa gli altri, sempre troppo avanti per controllare se siamo vive o morte. Passiamo i licheni, gli arbusti, scivolate verticali di fango e terra e alla fine, dopo interminabili ore, arriviamo al laghetto del bagno del secondo giorno. Tutto è inondato e questa volta Alexander mi tira su durante la mia gloriosa caduta nell’acqua.

Non sappiamo che ore siano all’accampamento base, ma la pioggia non dà tregua e fermarsi significa raffreddarsi più del raccomandabile. Zampe pesanti e caviglie distrutte, 10 minuti di pausa, un biscotto, una mela, e si ricomincia. Da qui dovrebbe essere tutto più facile. Las 7 subidas ora sono 7 bajadas, ma il livello non è neanche vagamente paragonabile a ciò che abbiamo appena fatto. Scendiamo trotterellando fino al campamento militar. Alexander ancora una volta vuole vincere la gara di ultra con se stesso e stabilisce un’andatura che il mio corpo e la mia mente si rifiutano di emulare.

Ho passato tutto il maledetto viaggio a correre dietro a uomini convinti che arrivare primi racchiuda tutti i meriti della vita, mentre magari godersi il paesaggio e contemplare qualche dettaglio non è così male nel grande schema delle cose. Di tanto in tanto lancio un’occhiata indietro, al Roraima sempre più lontano e nuovamente inarrivabile.

Facciamo serpentine in discesa finché non inizia a vedersi la chiesa in lontananza. Le mie vesciche mi odiano e zoppico allegramente cercando di evitare le infide pietruzze che mi inviano scariche elettriche per l’intera colonna vertebrale. Siamo al Kukenan alle 15 scarse, la corsa matta e disperatissima si è rivelata proficua.

Il fiume Kukenan che avevo intenzione di guadare nuotando è altissimo e pericoloso. Tutti i porteadores che ci hanno superato nel corso della giornata sono qui seduti a un tavolo aspettando che il livello dell’acqua si abbassi. Ne approfittiamo per mettere qualcosa ad asciugare e mangiare una crema di asparagi che ci rimette al mondo. Mi stendo sulla panca di legno in attesa che Alexander emetta il verdetto sul resto della nostra giornata. Quando verso le 16.30 ci annuncia che guaderemo e l’acqua arriverà al petto degli umani e a me direttamente nell’anima. Non sono entusiasta. La corrente è davvero forte, ma se non lascio la corda e seguo le istruzioni non può succedere niente. L’acqua, rispetto a quella di stamattina, è quasi calda e affronto la nuova avventura con più entusiasmo e divertimento che il resto dell’intera giornata. La seconda tranche è meno aggressiva e riusciamo a passare da sole con la corda. Ci siamo quasi

L’ultimo tratto di sentiero prima di Rio Tek, con la luce soffice prima del tramonto, ha un incanto da quadro. Continuo a guardare la chiesa coi suoi gialli e il sentiero biancastro scendere e finalmente sento che questa infinita giornata è terminata. Guadiamo Rio Tek e raggiungiamo l’accampamento, un ultimo bagno nel fiume per togliere sudore e fango, cena e a letto. Ogni muscolo mi fa male, ma ormai la parte dura è terminata.

Il tepuy è rimasto nascosto quasi tutto il giorno, ogni volta che si vede appare lontanissimo nello spazio e nel tempo, come se fossimo state lassù una vita fa e non questa stessa mattina. Oggi non si vedono le stelle. I cani abbaiano, i bimbi escono a giocare al buio e tutti i porteadores ripartono verso Paratepuy nell’oscurità. Arriveranno tra un paio d’ore, quando starò già dormendo.

Giorno 6: Rio Tek – Paraitepuy
13 km – 3h

Ancora privi di riferimenti temporali, usciamo forse verso le 8, correndo come al solito. Sono determinata a stare al passo ma come al solito dopo mezz’ora sono già la zavorra del gruppo. Ascoltiamo musica: un paio di canzoni di reggaeton in pemon, musica llanera in uno spagnolo misto a pemon, salsa venezuelana e rock classico in inglese. Canto senza voce perché il fiato non mi permette di fare uscire alcun suono.

trekking roraima giorno 6

In 3 ore abbondanti siamo praticamente a Paraitepuy, dopo una discesa dolorosa per i muscoli e una salita impegnativa per i polmoni. Entriamo nel villaggio come gladiatrici vittoriose, sudate, sporche e soddisfatte per aver portato a termine una grande impresa. Ci accoglie Luz al tavolo dell’entrata del parco, con birre e collane per gli umani e un braccialetto da mettere al collo per me. Sono quasi commossa dalla loro generosità, anche se faccio fatica a mostrarlo. Ci ringraziamo profusamente a vicenda, anche se loro non hanno davvero nulla di cui ringraziarci, siamo solo turiste con poco da insegnare e molto da imparare.

Dopo aver riportato le nostre cose, Alexander ci accompagna alle cabañas sulla collina, con la miglior vista del villaggio. La signora ci offre una stanza con un letto e un bagno sporco privato che funzioneranno benissimo per le prossime ore. È la vigilia di Natale e anche la comunità vuole festeggiare. Al calar del sole inizia a riecheggiare la musica dall’altro lato del villaggio, sulla collina dell’albero di Natale. 

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