Il trekking del monte Roraima è un’esperienza mistica per ogni creatura animale e umana. Noi abbiamo fatto il trekking di 6 giorni, coprendo però la distanza del tour di 7 giorni, e siamo tornate soddisfattissime. Nel post informativo a questo link troverai tutto ciò che riguarda la preparazione, i costi, la scelta del tour e compagnia bella. Rimani su questa pagina invece per farti un’idea delle tappe, dei paesaggi, della difficoltà, delle impressioni e delle storie di viaggio.
[Questa è la prima di due parti. Per la seconda: qui]
Giorno 0: preparazione e avvicinamento
Santa Elena de Uairén – San Francisco de Yuruanì – Paraitepuy
La preparazione
Alexander cammina con l’energia del corridore che è, come se avesse una molla nelle scarpe, e un sorriso caloroso che trasmette genuinità e affidabilità, come se fosse davvero contento di conoscerci e di iniziare quest’avventura con noi. Ha uno zainetto rosso semi-vuoto e un volto con le rughe leggere di chi ha preso tanto sole nella vita. Alexander è indigeno dell’etnia pemon, della comunità di Paraitepuy, dove inizieremo la nostra camminata. Ha una cartelletta su cui appunta a matita ogni cosa da fare in città e ci organizza subito la spesa per capire cosa manca.
Dopo vari giri per Santa Elena, siamo pronti a partire in taxi verso la comunità. Ci incastriamo come possiamo nella macchina del tassista indigeno che sarà il nostro lasciapassare fino a San Francisco, tra una battuta e un saluto ai poliziotti dei posti di controllo. Il passeggero sul sedile davanti è anziano e ha le dita cortissime. Dormicchia e parla poco. La Gran Sabana dal sedile posteriore del taxi rievoca ricordi di quanto mi sono sentita libera e felice passandoci in mezzo in Trottola (il nostro minivan) quasi un anno fa, alla ricerca di quebradas e cascadas e alla caccia della magia dei tepuy in lontananza.
Il tragitto in moto
Una volta a San Francisco ci fermiamo a pranzo da una signora che dice che smetterà di lavorare solo quando se ne andrà il “presidente” Maduro e che vuole che suo figlio si sposi con una persona come l’umana per avere dei nipoti belli. Mi ha fatto sorridere. I ragazzi sono arrivati in moto e crocs ai piedi e hanno caricato casse, zaini, buste e bustine come se fosse la cosa più normale del mondo. Io ero sulla moto del più giovane, spiaccicata contro di lui in bilico e un po’ a disagio, incapace di muovermi e con la pelle delle zampe che tirava in modo assai scomodo.
Il tragitto non è stato dei migliori, la strada dissestata tra sabbia, pietre grandi e salite da fare a tutta velocità e discese ancora peggio. Dopo 27 km e 50 eterni minuti in cui ho cercato disperatamente di farmi distrarre dalla bellezza dei tepuy, abbiamo raggiunto la comunità di Paraitepuy e piantato la tenda sotto il gazebo di legno con tegole di alluminio accanto all’ufficio dei guardaparques. Dritta davanti a noi c’è l’elusiva sagoma del monte Roraima, sempre nascosta dalle nuvole, ma che potrebbe far capolino in qualsiasi momento. Conosciamo dopo una corrispondenza solo virtuale Selene e Humberto di @sentidos.humanos, in giro con il loro adorabile van arancione da 8-9 anni. Ci presentano il loro cane Tobby e ci raccontano la loro camminata e scampoli della loro vita tra Italia, Venezuela e il resto dell’America latina.
Nel frattempo si fa notte e dopo un piccolo briefing ci rifugiamo in tenda a pensare. Ci accompagnano la pioggia e i canti dei bambini che si stanno preparando per le feste natalizie. Qui è tutto più bello nella sua schiacciante semplicità.
Giorno 1: Paraitepuy – Campamento Rio Kukenan
15 km – 4h30 totali
Ha piovuto tutta la notte a Paraitepuy, ma la mattina si prospetta asciutta. Pensando in una partenza più o meno celere, siamo sveglie dalle 6 organizzando zaini ed equipaggiamento. Non partiremo prima delle 9.30, ma almeno abbiamo avuto tutto il tempo di preparare corpo e spirito. Colazione a base di avena e frutta, ultime parole scambiate con i ragazzi, un breve colloquio con il guardaparque e siamo pronte.

Il sole è già alto e non mi aiuterà nei tratti in salita, che per fortuna oggi sono pochi. Siamo determinate a dimostrare ad Alexander che possiamo fare l’itinerario di 7 giorni in 6, per questo lo talloniamo quasi con insistenza sul sentiero inondato di sole, mentre lui ci racconta miti, leggende e storie familiari come se fossero quasi la stessa cosa. Le sue ultramaratone di oltre 100 km, di come sale e scende il Roraima in 7 ore per allenarsi, dei suoi 3 figli e della bimba che ha perso e spera di “recuperare” ora che sua moglie è di nuovo incinta. Ci insegna parole in pemon e nomi di piante e animali. La leggenda dell’albero della vita e dei fratelli che in qualche modo riuscirono a prenderne i frutti. Delle 3 diverse etnie pemon e di come il modo di parlare sia leggermente diverso. Del tepuy che chiamano el indio acostado (l’indigeno sdraiato) e di tutte le forme che assumono pietre e nuvole con l’immaginazione.
Facciamo fermate frequenti, forse troppo considerando la relativa facilità della giornata, ma Alexander sta cercando di valutare le nostre capacità e prendere le misure con noi. Passiamo un boschetto riparato e qualche punto d’acqua, e il resto è di fatto un lungo falso piano o quasi. A volte le fermate sotto il sole sono più dolorose che riposanti. Il suo modo di raccontare, comune a molti indigeni, è spesso un giro di parole con premesse e dovizia di dettagli non funzionali alla storia. Tutto è un po’ nebuloso e vagamente arzigogolato, con involuzioni e divagazioni che presto si imparano a riconoscere e apprezzare (non tanto sotto il sole). Forse ci sta reinsegnando il valore del tempo e della lentezza, che a vivere nel mondo degli umani persino io a volte tendo a dimenticare.
Alexander ha il suo walkie-talkie con cui comunica con l’intera comunità e con i suoi familiari: c’è un canale per ogni famiglia ed evenienza. Quando parla per radio ci lascia andare avanti da sole, come se ci tenesse alla sua privacy nonostante il nostro pemon sia sotto zero. Procediamo in autonomia, quindi, guardandoci indietro ogni tanto come ad aspettarlo, con l’ingenua illusione di essere così veloci da non poter essere raggiunte. Ci ricrederemo molto presto.

Arrivate al mirador, è tutta discesa. Galvanizzate e con le zampe fresche, il sudore che sfavilla sul guscio e sulla pelle, raggiungiamo Rìo Tek verso le 13. Le casupole di legno sono chiuse, le tavolate sotto i gazebi dai tetti di paglia deserti. Lo spiazzo brullo di terra gialla ha le fratture rugose del deserto sotto il sole cocente. Non ci sono ombre. Alexander ci concede l’ultima pausa mentre prepara il suo gueyar/huellar (?) di vimini con tutto ciò che ci servirà per sopravvivere durante la spedizione. È lungo e stretto con gli spallacci a mo’ di zaino e corde per mantenere il carico. A quanto pare, si mette nella parte inferiore la carica leggera, in mezzo ciò che pesa di più e sopra altre cose leggere. Con il sacco del cibo ben fissato, le bottiglie di benzina per la stufa e la tavoletta del water portatile ben in vista, riprende a camminare con la stessa disinvoltura precedente, come se non avesse 23 kg di roba sulle spalle e non fosse alto una tartaruga e mezza.
Questa parte di sentiero sembra un po’ la contea, dopo l’attraversamento del fiume Tek. I bambini di Rio Tek, tre in totale, fanno il bagno nel fiume per lavarsi e per lavare i vestiti, mentre ascoltano vecchia cumbia di un’epoca in cui erano a malapena nati i loro genitori. Tra il fiume Tek e il fiume Kukenan c’è una chiesa colorata che sembra nuova, tenuta come una bomboniera in mezzo al nulla per ospitare congreghe religiose che si riuniscono raramente. Il sentiero bianco tagliato in mezzo al prato con la chiesa solitaria potrebbe essere un dipinto impressionista in versione Gran Sabana, con quell’esotismo quotidiano che manca nei dipinti parigini ed europei e senza la pomposità del diverso di impronta gauguiniana.


Manca solo un fiume per finire la giornata e montare l’accampamento: il rio Kukenan. Questo non è tranquillo come il precedente e cerco di far presa con gli artigli delle zampe posteriori sulle rocce scivolose mentre la corrente tenta di farmi cadere. Gli umani qui passano in calzini. Se fossi più pesante avrei guadato nuotando, ma la corrente è troppo forte e sarei finita dispersa in qualche altro fiume chissà dove.
L’accampamento è grande e ha diverse chosas dal tetto triangolare di paglia usate per i falò. C’è anche una struttura coperta più grande, con una tavolata e delle panche: non mangeremo mai più così comode per il resto del viaggio.
Appoggiati i bagagli, torniamo subito al fiume a lavar via sudore, fatica e terra dal corpo. Conosciamo così i famosi puri puri, insetti minuscoli neri che lasciano punture rosse e pruriginose sulla pelle e non danno tregua. Presenti in particolare vicino all’acqua, sono la piaga della Gran Sabana. Sembra impossibile che esseri così minuscoli possano essere tanto assetati di sangue. Non bisogna mai sottovalutare il piccolo: è viscido, subdolo, invisibile e molto agile. La piaga dei puri puri ci impedisce di goderci 5 minuti di serenità nell’acqua, con il tepuy dietro finalmente visibile. Con la pelle puntinata di rosso tipo Allegro Chirurgo mi spruzzo un mantello di repellente e torno al campo.

L’accampamento
Pensiamo di avere tante ore a disposizione per fare tante cose: sono le 15, la tenda è pronta e non dobbiamo nemmeno prepararci il nostro cibo. Invece i minuti si srotolano diventando ore e alle 18 scende il buio. Alla luce della torcia, Alexander ci prepara una pasta rossa con verdure, che mangiamo in quantità parlando di quanto poco le agenzie paghino le guide o a volte dell’assenza di guide indigene. Quello che fa questa gente e il loro grado di conoscenza del territorio sono incredibili, eppure il guadagno regna sempre sovrano.
Prima di dormire ci concediamo un momento per ammirare l’incredibile nitidezza della volta celeste. Quando l’inquinamento luminoso è inesistente, il cielo sembra un campo di lucciole incollate e la vastità e la brillantezza del cielo ti fanno sentire minuscola. C’è un pianeta con una luce folgorante. Buio negli occhi e luce nel cuore. Buonanotte.
Entriamo in tenda e nei sacchi a pelo, il mio rosso e l’altro blu. Non fa freddo, quasi non c’è vento, la notte è silenziosa. Una volta insaccata non sono più in grado di inanellare frasi di senso compiuto. Svengo nonostante l’irrequietezza dell’umana che si muove sul materassino duro. Svengo con la pienezza e la soddisfazione di chi ha portato a casa senza troppi drammi una giornata molto diversa da quelle a cui è tendenzialmente abituata (colpa dell’umana). Svengo con gratitudine per ciò che è e ciò che verrà. Nel silenzio delle stelle, svengo.
Giorno 2: Campamento Rio Kukenan – Campamento Base
7.5 km – 3h totali
Impariamo ben presto che la nostra sveglia, oltre alla luce che filtra nella tenda tra il puntinato della zanzariera, è il suono metallico dell’accensione della stufa per il caffè. In realtà non è metallico, è una specie di corda, tipo l’accensione di un tagliaerba ma con la vampata sommessa del fuoco invece che il rombo assordante di un motore. Alexander non viene mai a chiamarci in tenda, ma sappiamo che presto ci sarà una bevanda calda ad aspettarci fuori dal caldo confortevole di una notte in sacco a pelo. La cacca, per gli umani, si fa in una busta piena di calce, che poi si scuote per mescolare i vari contenuti e si lascia in un angolo protetto fino al ritorno, quando la porteremo indietro.
Per colazione oggi abbiamo arepas con uovo e io ho il mio tè verde, leggero sullo stomaco e amico della mia mente. Mentre Alexander sistema i piatti e le provviste in un abile gioco di tetris, analizzo la vita delle formiche a cuore, tipo formiche culone ma con una parte rossa in fondo a forma di cuore. Creature non particolarmente affascinanti esteticamente, le formiche nascondono così tante domande che più le osservo più dubbi mi vengono. Tutte sono alle prese con delle bacche verdi troppo grandi per loro: alcune le trascinano con visibile fatica, altre usano due zampe per sollevarle sopra la testa in una posa titanica di forza. Eppure non arrivano mai a destinazione, a metà strada si distraggono e cambiano bacca, cambiano strada e tornano da dove sono venute o abbandonano completamente la missione per passare a un’altra attività sconosciuta. Sembra un po’ il cervello della mia umana. Abbiamo ipotizzato che abbiano zone di competenza, tipo una catena di montaggio con regole a noi sconosciute e incomprensibili.
Con la nostra consueta ora abbondante di ritardo, all’alba delle 8.30, iniziamo la camminata di oggi sotto un cielo lievemente nuvoloso e una brezza ottimale che eviterà il mio surriscaldamento corporeo e conseguente morte. Il sentiero è tendenzialmente tutto in salita, nonostante sia più graduale e dolce in alcuni punti e più esigente e severa in altri. Arriviamo senza grossi problemi a un punto alberato chiamato campamento militar, dove in realtà non c’è posto per accampare e nemmeno l’ombra, per fortuna, di antipatica gente in divisa.

Siamo a metà strada e ho bisogno di rifiatare, anche se gli uomini sono freschi come rose. I sentieri si diramano e ricongiungono come serpenti di terra e pietrisco sciolto. Alexander dice che le sette salite inizieranno dopo il ruscello, ma abbiamo già passato due abbozzi di corsi d’acqua, tutto in salita, e queste sette famigerate dobbiamo ancora iniziare a contarle. Sto bene, ma mi si spezza il fiato e non posso dire niente se no mi prendono per una debole. Quando iniziano le salite tiro un sospiro di sollievo, siamo vicini alla fine e a me continua a sembrare che la salita in realtà non si sia mai interrotta.
Raggiungiamo l’accampamento base prima di mezzogiorno, con un vento sempre più forte e il sudore appiccicato addosso e ormai freddo. Scendiamo a lavarci al fiume, anche se la via fangosa minaccia più di sporcarci che altro e mi costringo a un rapido bagno in acqua gelata all’ombra della pioggia incombente e in equilibrio su pietre scivolose di color giallognolo. Facciamo in tempo a tornare pulite che inizia a piovere.
Alex ci ha preparato riso con verdure, che sparisce alla velocità della luce. Pioggia battente significa tempo in tenda per far siesta, scrivere, leggere, chiacchierare. Il campo base è una radura piana ampia e verde tagliata a metà da un fiume che serve per riempire le bottiglie d’acqua e più giù per lavare piatti e vestiti. Si tratta di uno spiazzo naturale prima della gran scalata al tepuy, così vicino e così elusivo. Il punto che Alexander ha scelto per noi, a differenza dei grandi gruppi che si fermano al centro, è un lato isolato sotto un albero all’imboccatura del sentiero del giorno seguente.

Siamo sotto al Roraima e per vedere la cima dobbiamo alzare il collo, non bastano gli occhi. Mentre il Kukenan è meglio disposto verso i suoi ammiratori, una sorta di dama timida a cui comunque non dispiace l’attenzione a tratti è abbastanza generosa con gli ammiratori, il Roraima non compiace nessuno. Non si è cercato la sua fama, ma se l’è creata circondandosi di nebbia, nuvole e mistero. Guardando il tepuy, ai 1800m di oggi, sembra impossibile che domani saremo in cima. A parte una sezione verticale serpeggiante, non si vede alcun sentiero: come se ci aspettasse una scalata verticale impossibile per chi non è allenato o particolarmente incline al suicido o al masochismo. Alexander dice che c’è il sentiero. Mi fido, forse non dovrei.
In una breve parentesi di sole andiamo a guardare il tramonto al mirador. Mentre il cielo si tinge di diverse tonalità di giallo e arancione e rosa, giochiamo a trovare forme alle nuvole, ma tutto si sfilaccia troppo velocemente come un incantesimo di zucchero filato. Oltre ai puri puri escono a lavorare anche i plagasauri, una sorta di zanzare giganti dal corpo esile come ballerine nere, sottili e disgustose.
Anche oggi c’è il pianeta brillante, ma le zanzare dinosauro si fiondano a grappoli vero ogni luce che vedono, popolando l’esterno della tenda in grumi neri. Alexander ci passa la nostra zuppa di funghi con pane tostato e mangiamo dentro, prigioniere della stessa natura che ci ospita. Usciamo appena per lavare i denti e siamo a letto prima delle 9.
Domani si preannuncia una giornata discretamente corta, sono solo 5 km e l’andatura dei primi due giorni fa ben sperare. Le nostre cose insacchettate in buste della spazzatura dentro allo zaino sono un costante memento della possibilità di dover camminare sotto la pioggia, ma il sonno porta fiducia in un domani ancora migliore. Non dormo comoda, mi fanno sempre male i fianchi e oggi la notte è più fredda. Infilo la testa nel sacco a pelo a mo’ di struzzo e sogno scarpe rosa nuove che non volevo, visto che non ho neanche i piedi.

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